Non so quanti di voi lo sanno ma ci sono più di 500 accordi multilaterali in tema ambientale, ognuno ha prodotto la nascita di una burocrazia ambientale frammentaria e di orizzonti ristretti. Per spiegare i limiti in cui sono costrette ad operare le organizzazioni ambientali internazionali basta citare il caso del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente: è l’unica organizzazione dell’ONU che si occupa di questioni ambientali, ha solo 58 Stati membri e per finanziarsi ha bisogno dei contributi volontari di Stati, organizzazioni o cittadini.
Per questo da più parti è giunta la proposto di riformare la governance mondiale attraverso un rafforzamento del suo pilastro ambientale. Questo significa in parole povere che più di un centinaio di paesi hanno già aderito all’idea della creazione di un’Organizzazione mondiale dell’ambiente – del resto esistono già dei corrispondenti per la salute o il lavoro.
Tra i paesi favorevoli ci sono i 27 dell’Unione Europea, i 54 dell’Unione Africana, più qualche paese dell’Asia – come il Nepal e la Thailandia – e dell’America Latina – come il Cile e l’Uruguay. Peccato che si trovino davanti un fronte composito composto da Stati Uniti, India, Cina, Russia e Brasile – più o meno gli stessi che avevano anche avversato il raggiungimento di un accordo sui gas ad effetto serra.
Qualunque cosa accada bisogna rilevare che la prima bozza della dichiarazione finale degli Stati a Rio+20 , pubblicata il mese scorso e accettata all’unanimità dai paesi membri delle Nazioni Unite, mostra già che non ci saranno delle opzioni zero. Prevede due ipotesi: una è rappresentata dal rafforzamento delle prerogative del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente – che finalmente dovrebbe avere una composizione universale ed un finanziamento obbligatorio -, l’altra invece immagina la creazione di un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, con un mandato rafforzato e una sede a Nairobi – come avviene già per l’UNEP, un argomento che piace ai paesi africani.